By: Moderatore on Sabato 10 Gennaio 2004 15:41
Sotto processo di
^Angelo Pergolini 9/1/2004 #http://www.panorama.it/economia/capire_economia/articolo/ix1-A020001022415^
Per truccare i bilanci, l'azienda di Calisto Tanzi si serviva perfino di una società che moltiplicava le fatture e aveva un nome davvero geniale: Eureka. Costituita dal colosso americano Citigroup. Che ora, con tutte le maggiori banche italiane e straniere, deve misurarsi con i dubbi dei magistrati e la sfiducia dei risparmiatori
Dopo quella dei ragionieri, scocca l'ora dei banchieri. Se la prima fase dell'inchiesta sul crac ^Parmalat#^ ha avuto come indiscussi protagonisti il ragionier Calisto Tanzi e il ragionier Fausto Tonna, adesso la ribalta spetta agli gnomi del credito. Perché è vero che i ragionieri, come hanno confessato, sono stati gli artefici del colossale disastro finanziario che ha travolto il primo gruppo alimentare italiano. Ma è altrettanto vero che hanno potuto sempre contare sull'appoggio delle banche. Le quali, per 15 anni, mentre i ragionieri taroccavano contabilità e bilanci, proponevano affari, suggerivano strutture finanziarie esotiche, prestavano soldi, collocavano bond, rassicuravano gli investitori. E intascavano laute provvigioni.
Ora che il giocattolo si è rotto, le procure della Repubblica di Parma e Milano vogliono vederci chiaro. Vogliono sapere, per esempio, se è vero quanto Tonna ha fatto mettere a verbale: e cioè che la Capitalia di Cesare Geronzi (il gruppo italiano più esposto nei confronti della Parmalat) imponeva determinate operazioni, pena il taglio immediato delle linee di credito. Ma vogliono anche capire se gli analisti del Citigroup (l'istituto di credito più grande del mondo e il maggior sostenitore dell'azienda di Collecchio) che lo scorso 17 novembre suggerivano «buy», consiglivano cioè di comprare le azioni del gruppo alimentare, sono molto cretini o troppo furbetti. E magari vorrebbero pure qualche chiarimento sui rapporti con quella Banca del Monte di Parma, presieduta da Franco Gorreri, ex responsabile della tesoreria della Parmalat, già raggiunto da un avviso di garanzia.
Oppure sapere come mai le banche non si sono accorte del singolare fenomeno della moltiplicazione delle fatture, che scontavano senza problemi. Moltiplicazione per cinque, per l'esattezza: tanto che a un fatturato reale di 400 milioni ne corrispondeva uno fittizio pari a 2 mila. Grazie a una trovata semplice e «geniale». E a una società lussemburghese che non poteva avere un nome più azzeccato: Eureka.
Il giochetto, scoperto dai revisori della Price Waterhouse, incaricati dal commissario Enrico Bondi di mettere ordine nel mare di cifre truccate della Parmalat, era disarmante. La distribuzione dei prodotti avveniva tramite 34 società. Tutte a responsabilità limitata. Tutte facenti capo alla Nyte investment, società fuori dal bilancio consolidato del gruppo Parmalat, che ora la Guardia di finanza sta cercando di rintracciare fra il Delaware (Stati Uniti) e l'Isola di Man. Che faceva la Parmalat? Consegnava la merce a queste 34 aziende di distribuzione e naturalmente emetteva le relative fatture. Poi girava questi crediti a decine di banche, ovvero si faceva anticipare i soldi. Le società distributrici, a loro volta, recapitavano latte e merendine ai supermercati, ma a emettere fattura era di nuovo la Parmalat, che poi girava questi crediti (buoni) a una società lussemburghese: l'Eureka. Costituita appositamente dalla Citigroup per questo lavoretto. Domanda: è mai possibile che il colosso finanziario Usa non sapesse nulla? E che le banche subentrate alla Parmalat nei crediti verso le società di distribuzione non abbiano mai sentito puzza di bruciato, anche quando quei crediti si moltiplicavano vertiginosamente?
Ecco, sono domandine come queste che gli investigatori adesso cominceranno a porre ai banchieri di Tanzi. Che sono tanti. Nell'elenco compaiono tutti i principali istituti di credito italiani. Dalla Capitalia al San Paolo Imi, dalla Intesa al Monte dei Paschi di Siena, dall'Unicredito alle Banche popolari unite. Ma ci sono anche colossi internazionali come la già citata Citigroup e Ubs, Deutsche Bank e Jp Morgan. Tutti gruppi che, a vario titolo, negli ultimi 12 mesi sono restati coinvolti in operazioni decisamente poco trasparenti. Basta pensare che Citigroup e Jp Morgan hanno patteggiato con il procuratore generale di New York una multa da 305 milioni di dollari per chiudere il capitolo dei traffici che portarono ai crac di Enron e Worldcom. E che le stesse due banche (insieme ad altri otto istituti di credito, fra cui anche Ubs e Deutsche) sono state coinvolte nel cosiddetto scandalo delle commissioni (in pratica, facevano la cresta sulle emissioni obbligazionarie).
Quanto alle banche italiane, basta scorrerne l'elenco: è praticamente la fotocopia di quello degli istituti più coinvolti nel crac della Cirio. Un disastro che ha coinvolto decine di migliaia di risparmiatori che avevano sottoscritto le obbligazioni del gruppo guidato da Sergio Cragnotti. E se fra il crollo della Cirio e quello della Parmalat ci sono enormi differenze (se non altro per le cifre in ballo), compaiono anche inquietanti punti di contatto. E parecchie somiglianze.
In comune le due storie hanno una forte esposizione con la Capitalia (banca romana presieduta da Cesare Geronzi, già indagato per la vicenda Cirio) e un affare opaco, quello della Eurolat. Società che nel 1998 Tanzi comprò sborsando a Sergio Cragnotti oltre 350 milioni attuali di euro, consentendo al finanziere di lucrare una plusvalenza pari a 150 milioni di euro. Che allora consentirono alla Cirio di non affondare.
Di simile le due storie hanno anche l'utilizzo spregiudicato delle obbligazioni. Collocate non solo presso investitori istituzionali, ma anche fra migliaia di risparmiatori. La differenza, in questo caso, consiste nel fatto che le obbligazioni Cirio erano senza rating mentre quelle Parmalat erano debitamente certificate. E perciò erano state collocate con facilità anche sui mercati internazionali, soprattutto su quello americano. La conseguenza è che il crac Cirio ha avuto conseguenze a livello interno, quello Parmalat a livello planetario. Infatti oggi a muoversi non sono solo le procure di Parma e Milano, ma anche la Sec (l'organo di vigilanza sui mercati Usa) e il procuratore di New York, Eliot Spitzer. Mentre gli investitori di mezzo mondo si stanno organizzando per avviare richieste di risarcimento.
Difficile ipotizzare come andrà a finire. All'inizio dell'affaire Parmalat l'ipotesi più gettonata era quella di un disastro provocato dall'uso spregiudicato della finanza creativa in un gruppo sostanzialmente sano dal punto di vista industriale. Ma più avanza la lettura dei conti veri della società di Collecchio, più si delinea un quadro assai desolante. «Tutte, ma proprio tutte le società del gruppo Parmalat facevano bilanci falsi» dicono oggi gli investigatori. Trovare qualcosa di buono da salvare, insomma, sarà molto difficile. Trovare poi qualche soldo per risarcire almeno in parte i piccoli azionisti truffati e gli obbligazionisti gabbati appare ancora più improbabile.
Una prospettiva che fa imbufalire i risparmiatori. I quali non capiscono come mai gli organi di controllo, dalla Consob alla Banca d'Italia, alla borsa, non siano stati capaci di controllare alcunché. E soprattutto che non si capacitano dell'atteggiamento delle grandi banche.
È mai possibile che se un commerciante o un piccolo imprenditore chiede un fido o l'anticipo di qualche fatturina la banca gli chieda garanzie su garanzie, mentre per aziende come la Parmalat (ma anche la Cirio) la borsa fosse sempre aperta? E ancora: avete provato a chiedere un prestito personale di qualche migliaio di euro? Beh, come minimo la banca esaminerà con la lente d'ingrandimento la vostra busta paga e il reddito familiare. Ma per garantire e collocare montagne di obbligazioni Parmalat (oltre 7 miliardi di euro) tutti i più blasonati istituti di credito, italiani e internazionali, si accontentavano di dare un'occhiata distratta a bilanci taroccati da cima a fondo.
Quanto alle banche, quelle se la caveranno come sempre. Prima, quando la Parmalat sembrava una miniera d'oro, hanno ingrassato i loro bilanci con le commissioni. Adesso quelle più esposte perderanno sicuramente qualche penna. Ma non c'è da dubitare che si rifaranno.
Come? Aumentando i costi per servizi e conti correnti, che nel 2003 erano già lievitati del 9 per cento. Statene certi: cresceranno ancora. E a pagare saranno i soliti noti. Gli investitori. E i piccoli imprenditori con l'imperdonabile difetto di avere bilanci veri e nemmeno una offshore alle Cayman. Perché la storia è sempre la stessa: sui grandi crac la banca campa. E il risparmiatore crepa.